Ancor oggi spiace constatare come l'inclusione scolastica sottenda il retaggio di una scarsa o malsana educazione familiare da ripararsi con la socializzazione coatta.
Rimanere ancorati ad uno sguardo orizzontale, dimenticando di essere creature di Dio, riduce l'essere umano ad inseguire il desiderio di sentirsi parte di una comunità, a qualsiasi costo.
Dimenticare involontariamente o per dolo il rapporto esclusivo che ciascuno di noi ha con il Padre, induce a considerare l'inclusione nella società come il più alto obiettivo umano; innalzare invece se stessi in un rapporto verticale costituisce il sommo e più efficace obiettivo teleologico: lo scopo ed il fine di ogni creatura umana.
Il concetto di inclusione, cui si allude genericamente quando si parla di Bisogni Educativi Speciali e più precisamente quando ci si riferisce alla disabilità, ha una radice montessoriana e si fonda sulla socializzazione. Un bambino/alunno disabile, o con bisogni educativi speciali, secondo l'approccio montessoriano, ha necessità di essere inserito subito all'interno di un contesto sociale "opportuno". Perché?
Per risponder a questa domanda, dobbiamo fare un passo indietro e cioè distinguere due concetti fondamentali della pedagogia speciale del diciannovesimo secolo: la differenza tra bambino malato, che andava curato, ed il bambino idiota che andava invece educato. Questa dicotomia generò metodologie ed approcci didattici evidentemente differenti che ebbero poi ripercussioni nel ventesimo secolo con la Montessori, e che ahimè si trascinano ancor oggi.
Secondo Maria Montessori, che si rifaceva al pensiero pedagogico di quegli anni, il "disabile" non coincideva con il malato, che necessitava di cure che non avrebbero comunque garantito un'effettiva guarigione, al contrario "il disabile" era tale non per patologia bensì per scarsa/inadeguata educazione. Costui dunque, penalizzato dalla carenza di tutti quei vantaggi determinati dalla socialità, che invece avevano ricevuto tutti quei bambini che erano considerati normali, andava inserito in un contesto sociale affinché da esso potesse esserne educato.
Nonostante oggi gli studi scientifici abbiano ampiamente dimostrato che molte di queste disabilità hanno una causa genetica, chi si occupa di pedagogia speciale e soprattutto di didattica speciale mutua colpevolmente il concetto di disabilità con quello di "mala educazione", da sanarsi con l'improvvisato concetto di inclusione. Un'inclusione generalizzata, aperta a tutti indiscriminatamente e generica senza alcun fondamento pedagogico. Forzata per ideologia e spacciata come unica possibilità per una qualità di vita soddisfacente.
Maria Montessori si fregiava di un metodo squisitamente scientifico perché basato sull'osservazione, dimenticando forse che anche l'osservazione non può considerarsi oggettiva, poiché sempre influenzata da variabili soggettive. Piuttosto vale la pena chiedersi cosa osservasse la Montessori, come osservasse ciò che guardava e perché arrivò alla conclusione che per migliorare la condizione della persona con disabilità fosse assolutamente necessario includerla in un contesto sociale che la riconoscesse "competente". Ovviamente per esaltare le competenze della persona disabile, occorreva un contesto estremamente semplificato.
Le lenti che la Montessori indossò per osservare i bambini idioti le restituirono evidentemente una realtà deformata che riconosceva il primo nucleo educativo di riferimento del disabile (la famiglia) non propriamente all'altezza di un'educazione "normale". Era più facile "rieducare" le famiglie o allontanare i bambini e "riplasmarli" nella scuola? Si optò decisamente per questa seconda possibilità.
In Italia, le scuole speciali, che dovevano essere dedicate specificamente allo scopo, chiusero definitivamente i battenti nel 1977. L'accusa ed il limite che i pedagogisti individuarono nelle scuole speciali e nelle classi differenziali era sociale, poiché ghettizzante, e metodologico, poiché pretendeva di ricondurre alla normalità il disabile tra i disabili, lasciandolo di fatto nella sua condizione.
Era il momento giusto per introdurre una nuova figura scolastica, in quella scuola frequentata dai bambini normali, il docente di sostegno. Costui, animato dagli stessi propositi della pedagogia speciale, avrebbe sicuramente reso il soggetto handicappato meno handicappato in virtù di un processo di integrazione lento ma proficuo, rivoluzionando l'assetto sociale , familiare e scolastico.
Ed invece nel corso degli anni, anche questa soluzione sembrò insoddisfacente. Così, pur rimanendo ancorati al vecchio assunto pedagogico, secondo cui il disabile era tale solo perché male educato, si mantenne la strategia dell'integrazione sociale trasformandola in inclusione sociale ma soprattutto riproponendo con forza il concetto montessoriano del bambino al centro, perché competente.
Il termine inclusione, inflazionato, abusato e distorto, sembra essere rimasto una lontana ed irraggiungibile chimera per la disabilità. E' evidente come non abbia sortito le aspettative né del mondo pedagogico, né di quello scolastico, né di quello sociale, né tantomeno di quello familiare, sempre debitamente tenuto ai margini. E qui vi è il paradosso e l'orgoglio della pedagogia sinistra: resistere al cambiamento e mantenere l'ideologia sinistra anche quando la verità grida vendetta!
Siate onesti! A chi giova l'inclusione forzata nella socializzazione? Quali sono le osservazioni che vi conducono alla conclusione che il soggetto disabile sarà meno disabile solo se sarà messo nella condizione di socializzare con i cosiddetti "normali"? Quale teoria pedagogica sostiene la tesi che sentendosi protagonista il disabile migliorerà decisamente la propria educazione senza precipitare in "protagonismi patologici"? La vostra miopia non vi consente di vedere che la socializzazione non coincide con la buona educazione e soprattutto che un a buona educazione non fa di un disabile una persona "normale"?
Non sono i contesti familiari svantaggiati, né la scarsa educazione, né la mancata socializzazione a rendere disabile la persona disabile, ma l'incapacità di lasciarsi alle spalle ideologie nefaste che fanno convergere l'impiego di strumenti ed energie in metodi manifestamente infruttuosi e spesso nocivi.
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